domenica 8 dicembre 2019

La truffa


Ogni vita comporta un'invisibile interiorità, che ne è la sostanza.

Per coglierla, occorre un aggiramento delle apparenze sensibili, un balzo controcorrente, quale fa il salmone, simbolo vivente delle conoscenze norrene.

L'aggiramento, il salto, porta dal piano dei participi passati a quello dei presenti: dalla natura naturata a quella naturante, dall'esperienza vissuta alla creazione vivente.

Ad uno sguardo esoterico, il mondo animato, vissuto, attuato, morale o immorale, si mostra come un campo di trappole, un paretaio brulicante di vittime, che si rallegrano delle esche o si divincolano nelle panie.

Lo sguardo esoterico lo raggira. salta al di là per cercare l'attuante, l'animante; stando alla metafora del paretaio, cerca il capanno dell'uccellatore.

Ciò che esotericamente interessa non sono le illusioni o gli strazi delle prede, ma l'allevamento degli zimbelli, la profonda tecnica di una civettina sul trespolo, l'emblematica dei nodi con cui sono intrecciati calappi e laccioli, l'ottica degli specchietti per allodole, l'acustica dei logòri e degli zùfoli.

La mente esoterica, imbevuta di tali studi, portata a compilare dei dizionari della truffa, come quello che mise in forma di romanzo Melville col Confidence Man, passa alla domanda decisiva, che porta dritta all'arcano degli arcani: - Qual'è la forza nell'interiorità che può sedurre, intrappolare, legare in un sol fascio tutta la persona?

La domanda deve suonare pura di ogni accenno moraleggiante. Esotericamente la truffa, intrinseca ad ogni seduzione, è un aspetto dell'amore, dell'attrazione che muove il sole e le altre stelle, della gravitazione universale. Ogni cosmogonia e filosofia è un gioco di bussolotti, ma è vera anche l'inversa: che ogni raggiro svela l'essenza della Grande Illusione cosmica, come il gioco dell'oca è la spirale del nautilus e d'ogni feto, come nel saltare a rimpiattino i bambini disegnano alberi sefirotici, piani di cattedrali gotiche.

Per l'esoterico, il creato è un campo dei miracoli, una fiera degli inganni, ma per lui è anche vera l'inversa.. si ricorre a giochi e gherminelle: tutto si pone in opera pur di autoallucinarsi, in vista, nel nostro caso, di un'illuminazione, di un'ispirazione sopranaturale.

Fu per molto tempo mia ambizione dominante redigere un trattato della truffa, ma venne un dì che mi diedi per vinto, buttai in solaio i tanti appunti, ritagli di cronache giudiziarie, trascrizioni di storia civile, diari di truffette da me osservate. A mano a mano che studiavo, il tema si veniva gonfiando e svaporava, semplicemente perchè l'intera esistenza è un infinito inganno.

Insegna il Vedanta e Schopenauer ripete: tutto è frode poichè diviene e non è, ci seduce e poi sparisce nel nulla.

Goethe loda la Natura. Dea che ci impone di farci ingannare da lei, e se riluttiamo ci punisce col renderci gelidi e sconsolati.

E' bene che Pinocchio sia gabbato, come è fausto che lo sia Polifemo. Cosa c'è da compatire in chi brama di triplicare gli zecchini, parlare coi morti, farsi svelare le vite precedenti, fregiarsi di titoli abusivi, comprarsi il Colosseo?

Se non ci fosse la truffa, si potrebbe credere nell'uguaglianza, ma un ciurmatore, via! alla vittima non è uguale.

Se non ci fosse la truffa, prevarrebbe la legge della spada: il guerriero. Ma a costui il sacerdote fa l'incanto, come la volpetta esopica al leone. Il sacerdote racconta favole irresistibili, come Shahrazad. Lo scrittore dell'"Oscura Apocalissi" custodisce le ampolle del senno nel mondo della Luna, c'informa Ariosto.

Sacro mimo è il ciurmatore: si fa tutto a tutti e "a tutti par l'incantator mirando, /mirar quel che per sè brama ciascuno, /donna, scudier, compagno, amico".

Questa sacrale origine trapela dall'etimo di "ciurmare", da charme, incantagione, e da quello di "ingannare", che viene da gannare, canzonare; la canzonatura è l'ufficio del bardo censore o panerigista, che dà e toglie fortuna sociale.

In cinese ingannare si dice wu, nel cui ideogramma figura una bocca dalla quale escono tante parole. con accanto una danza di sciamane. Il primo senso di wu è "sciamano".

Non c'è scelta non c'è riparo, tutto è frode e illusione, basta dirlo senza darsi sentimento di sorta. L'esoterico non giudica, è troppo impegnato a scoprire l'energia essenziale pura, senza attributi morali, che regge l'uomo e per analogia il mondo.

Qual'è allora nell'uomo la forza suggestiva che può fargli, diceva Platone, l'incantamento, adunando, sommando, fondendo memorie, aspirazioni, timori, furie ed esitazioni, desideri e sensazioni e pensieri, tutto, in un unico impulso, unificato e incrollabile? Che cosa in lui lo può ipnotizzare come il sibilo di un serpente o di uno zùfolo magico?


Si può solo rispondere: la nostra più intima fede. Quasi ogni filosofia insegna che ogni oggettività in sè e per sè è un ubbìa. La fede dell'osservatore seleziona e conforma il reale. La fede non è soltanto la sostanza di ciò che siamo, ma anche della natura quale ci appare. Non è dato dimostrare una differenza tra la percezione della realtà e un'allucinazione collettiva e durevole: sono infatti la stessa cosa.

In noi dobbiamo accettare la forza più intrinseca che ci suggestiona e sorregge, anche e sopratutto a nostra insaputa, che ci vela e rivela a suo modo la realtà.

La fede è la capacità di autoallucinarsi o di sostanziare in un certo modo la percezione: queste due definizioni sono alternative e anche simultaneamente vere. L'uomo è perciò infinitamente plasmabile, quando si agisca sulla fede di cui viva. Chi lo sa, mette a proprio vantaggio questa conoscenza, innanzitutto dentro se stesso: coltiva direttamente la propria fede, allena in sè la facoltà di immaginare e di assentire, considerandolo come un arto fisico da esercitare e irrobustire, truffandola, autosuggestionandola, trasformandosi in una tastiera di riflessi condizionati, in modo che sia lui alla fine a disporre della fede che di solito dispone di lui, largendo e commisurando il proprio entusiasmo.

La fede, truffatrice, può essere truffata; la tecnica sta nel profondere lodi e amore a ciò che si desidera diventare.

Soltanto la parte di sè che aspira alla liberazione totale, alla coincidenza e identificazione con l'essere perfettissimo è capace di usare la fede come uno strumento, burlandola.

Che perno di tutto, pietra di volta, sia la fede, fu la verità rivelata in parole piane e perentorie da Gesù. Come ogni dichiarazione esoterica, riuscì scandalosa e incredibile, sul momento, di poi fu attenuata e sbrodolata.

Elèmire Zolla, Verità segrete esposte in evidenza (estratti)











venerdì 29 novembre 2019

L'EsserCi e il Nulla



Il rapportarsi al mondo che domina le scienze in quanto tali, fa sì che esse cerchino solo l'essente, per renderlo oggetto.

Ciò che deve essere indagato è solo l'essente, e oltre a ciò - niente.

La scienza non vuole sapere niente del nulla.

Che ne è di questo nulla?

Il nulla è la totale negazione della totalità degli essenti.

La negazione, però, è, secondo l'insegnamento mai intaccato della logica, un'operazione specifica dell'intelletto.

Ma esiste il nulla soltanto perchè vi è il non, cioè la negazione? Oppure è il contrario, cioè la negazione e il non esistono soltanto perché vi è il nulla?

Noi affermiamo: il nulla è più originario del non e della negazione.

Dove cerchiamo il nulla?

Quando non siamo veramente affaccendati con le cose e con noi stessi, l'essente ci assale in quanto totalità, per esempio nella noia propriamente detta.

La profonda noia, che si insinua negli abissi dell'esserCi, come un silente nebbia, riunisce cose, uomini e noi stessi in una strana uniformità. Tale noia manifesta l'essente nella sua totalità.

Tali stati d'animo (noia, angoscia, sogno etc.. - stimmung), in cui si "è" cosi' o così si fanno trovare - in quanto immersi in essi - in mezzo all'esserci nella sua totalità.

Ma proprio quando gli stati d'animo ci fanno trovare davanti all'essente nella sua totalità, essi ci nascondono il nulla che cerchiamo.

Tale avvenimento è possibile ed anche reale - seppure raramente e per attimi in quella disposizione fondamentale che è l'angoscia.

L'angoscia dinnanzi a ... è sempre angoscia per... ma non per questo o quello .. ma è l'impossibilità di una possibile determinazione. Nell'angoscia noi diciamo - "ci troviamo spaesati". Noi non siamo in grado di dire dinnanzi a cosa siamo spaesati. E' nella totalità che ci si sente così. Tutte le cose e noi stessi naufraghiamo in uno stato di indifferenza... nel senso che le cose e noi stessi si rivolgono nel loro allontanarsi da noi.

Tale allontanarsi dell'essente nella totalità, che ci circonda nell'angoscia, ci affanna. Non rimane alcun sostegno. Rimane soltanto e ci assale - in tale eclissarsi dell'essente - questo "alcuno".

L'angoscia rende manifesto il nulla.

Noi siamo sospesi nell'angoscia. Più precisamente: è l'angoscia che ci rende sospesi. poichè fa sì che la totalità degli essenti si eclissi.

Il puro esserCi, scosso da tale sospensione, in cui non può più appigliarsi a nulla, è ciò che rimane.

L'angoscia ci toglie la parola. Dato che l'essente nella totalità si eclissa e quindi è proprio il nulla a incalzare, dinnanzi ad esso viene meno ogni dire "è".

Che l'angoscia riveli il nulla, l'uomo stesso lo conferma immediatamente dopo la scomparsa di essa.

Ciò a cui e per cui ci siamo angosciati era - propriamente - "nulla". Il nulla medesimo, infatti, in quanto tale era là.

Attraverso la disposizione originaria dell'angoscia, noi siamo giunti all'avvenimento dell'esserCi in cui il nulla è manifesto - e dal quale esso deve essere interrogato.

Martin Heidegger, Che cos'è la metafisica - Estratti





venerdì 8 novembre 2019

Jung, Ramana Maharshi e il concetto del Se'


Ramana Maharshi chiama l'Arman Io-Io, indicando cosi' che il Se' e' esperito come soggetto del soggetto, come la vera sorgente e guida dell'Io che tende sempre (erroneamente) a impadronirsi di quell'autonomia che e' precisamente il Se' a suggerirgli.

Questo conflitto non e' sconosciuto all'occidentale, per il quale e' il rapporto dell'uomo con Dio. L'India moderna, posso affermarlo per esperienza personale, ha ampiamente assimilato gli usi linguistici europei: Se' o Atman o Dio sono essenzialmente sinonimi.

Ma il contrasto, o la coincidenza, Io e Se', ha un significato un po' diverso dall'occidentale "Uomo e Dio". Io, in contrapposizione a Uomo, e' un concetto tipicamente " psicologico", e cosi' pure Se' come noi lo intendiamo.

Potremmo quindi essere inclini ad ammettere che il problema metafisico Uomo-Dio si sia spostato, in India, sul piano psicologico; ma da un esame piu' attento risulta che non e' affatto cosi', poiche' il concetto indiano dell'Io e del Se' non e' realmente psicologico, ma - si potrebbe dire - altrettanto metafisico quanto quello di Uomo e Dio.

Manca all'indiano, come manca al nostro linguaggio religioso, il punto di vista della critica gnoseologica: egli e' ancora "prekantiano".

In India non esiste ancora una psicologia nel senso nostro del termine. L' India e' "pre-psicologica": quando cioe' parla del Se', pone un Se'. La psicologia non fa cosi'.

Non che neghi l'esistenza del conflitto drammatico, ma si riserva la poverta', o la ricchezza, d'ignorare il Se'.

Ben conosciamo una peculiare e paradossale fenomenologia del Se'; ma siamo consci del fatto che percepiamo con mezzi limitati qualcosa di sconosciuto e lo esprimiamo in termini di strutture psichiche, di cui ignoriamo se siano o no conformi alla natura di cio' che dev'essere conosciuto.


Dal punto di vista psicologico si puo' stabilire soltanto che l'empiria del Se' mostra una sintomatologia religiosa, cosi' come il tipo di asserzioni associati al termine "Dio".

Per l'indiano e' chiaro che il Se', quale originaria sorgente psichica, non e' diverso da Dio, e che nella misura in cui l'Uomo e' nel suo Se', non soltanto e' contenuto in Dio, ma e' Dio stesso. Ramana Maharshi non ha dubbi al riguardo.

Ma indubbiamente questa equivalenza e' un'interpretazione. Cosi' come e' interpretazione concepire il Se' come "bene supremo" o come meta di ogni desiderio e appagamento.

Se concepiamo il Se' come essenza dell'interezza psichica (cioe' come totalita' di conscio e inconscio), esso rappresenta effettivamente qualcosa di simile ad una meta di sviluppo psichico, e cio' al di la' di tutte le attese e le opinioni consce. Esso e' il soggetto di un processo che si svolge al di fuori della coscienza, sulla quale esercita una specie di effetto a distanza, unica manifestazione della sua presenza.

Un atteggiamento critico nei confronti di questo processo naturale ci permette di sollevare problemi che la formula Se'=Dio esclude a priori. Questa formula addita, quale inequivocabile meta religioso-etica, il dissolversi dell'Io nell'Atman, come risulta in modo esemplare nella vita e nel pensiero di Ramana Maharshi. Naturalmente questo vale anche per la mistica cristiana.

Conseguenza inevitabile ne e' il deprezzamento e la soppressione dell'uomo fisico e psichico (del corpo vivente e dell'aham-kara) a favore dell'uomo pneumatico.
Ramana Maharshi chiama per esempio il suo corpo "questo zoticone".

In contrasto con questo, e in considerazione della complessa natura dell'esperienza (emozione + interpretazione), il punto di vista critico ammette l'importanza del ruolo dell'io cosciente, ben sapendo che se non ci fosse quest'ultimo (aham-kara) non vi sarebbe nessuno al corrente di qualsiasi accadimento.

Senza l'io personale del Maharshi che, a quanto risulta dall'esperienza, esiste soltanto con lo "zoticone" (=corpo) di sua pertinenza, non ci sarebbe mai stato un Ramana Maharshi.

Anche se vogliamo ammettere con lui che non e' piu' solo il suo Io che parla, ma l'Atman, sono la struttura psichica della coscienza e cosi pure il corpo che rendono possibili le comunicazioni attraverso il linguaggio.

Senza l'uomo fisico e psichico, anche il Se' e' un'astrazione, come ha gia' detto Angelo Silesio:

So che senza di me
Dio non puo' vivere un istante
Se io venissi meno
Giocoforza gli sarebbe rendere lo spirito

Il carattere di finalita' del Se' presente a priori e l'impulso a realizzare quel fine sussistono, come gia' detto, anche senza la partecipazione della coscienza. Non e' possibile negarli, ma non si puo' fare neanche a meno della coscienza dell'Io. Anche questa impone perentoriamente le sue rivendicazioni, e molte volte, in opposizione aperta o velata alla necessita' del divenire Se'.

In realta', a prescindere da poche eccezioni, l'entelechia del Se' consiste in una via di compromessi senza fine in cui l'Io e il Se' si controbilanciano faticosamente in vista del bene comune.

Un'oscillazione eccessiva dall'una o dall'altra parte risulta un esempio di come non si debba fare.

Ogni cosa ha bisogno, per esistere del suo contrario, altrimenti diventa insignificante fino ad annullarsi.

L'Io ha bisogno del Se', e viceversa.

Jung, La via del Se'